03-12-2014, 09:46
(Questo messaggio è stato modificato l'ultima volta il: 03-12-2014, 12:19 {2} da Mariano.)
Da tempo Ephìro percorre la strada, in viaggio col suo cinghialetto che dappresso lo incalza, lesto, di qua, di là, lungo il sentiero, grufola lieto sotto le foglie le ghiande cercando. Sceglie tra quelle più grandi a vedersi, di polpa tenera, dolce al sapore, così le frantuma nelle fila dei denti, come gli piace, una volta ed ancora. Giungono adesso in una piccola valle conosciuta ai mortali con nome che i padri, quando canuto hanno il crine, sussurrano ai figli petto gagliardo.
Di lato vi corre un sentiero, ignoto ai viandanti, s’arresta al cospetto d’una quercia maestosa che possente avversa dei venti la furia e anche d’inverno, preda dei nembi, quando saetta le striscia la chioma, di fronda s’oppone e difende l’ingresso che ai mortali da sempre è taciuto, laddove Ephìro lesto s’appresta!
Ecco dunque degli amaliti la terra, il popolo dei non nati, immortali vestiti di luce che dimorano sedi all’incontro incantate. Provengono dagli uomini, in un mondo dove mai hanno vissuto se non tempo corto nel ventre materno. A loro, morte, fu data precoce, dal fato talvolta, dall’uomo quando di stirpe, il copular furtivo cela alle genti, altre quando afflizione, crudele, al focolare s’avvinghia. Son d’anima puri poiché su loro non vi è scolpita dei mortali nequizia e dell’uomo modi fecciosi, non sanno d’inganni danaro e potere.
Di mano non piantano, né arano, la terra lasciano che si accudisca da sola, eppure tutto vi cresce, grano abbondante, viti feconde di grappoli dolci, frutta succosa, bacche e funghi mielati al sapore. Vivono in baite di legno odoroso e pietra ben lavorata, non sanno di leggi, non fanno consiglio, ognuno, tra uomini e donne, a se stesso rende obbedienza, seppure al ritrovo, tepore di cuore tutti li sazia.
Vi nascono bovi, pecore, capre belanti grandi mammelle che sole corrono le cime dei monti, nessuno le guida, non hanno padrone e riuniscono spesso al richiamo del gregge. Le munge, miti all’incontro, una ninfa della montagna, latte dolce, grasso, adatto a ricotta e caci preziosi.
Fra gli amaliti Lexeo è gradito ad Ephìro, alta statura, bronzeo di pelle, verdi gli occhi, lunga la chioma, scura, in una treccia composta con lacci di seta. Fitta la barba il mento gli adorna, curata, bella a vedersi su un candido manto che cinge l’agile vita. Saggio, d’animo mite, conosce i misteri di un mondo promesso ai mortali da un grande profeta. Così Ephìro lo tiene in concetto e all’incontro, dell’uomo, gli reca novelle.
Fiodea gli è compagna, dolce creatura, nera di chioma con seta preziosa ben intrecciata, d’oro un fermaglio sul fine la tiene e posa leggera sul seno sinistro. Sembianza leggiadra che di Lexeo il focolare fa lieto, talvolta, egli, dolce l’assedia, garbato di mano vezzeggia quel corpo scambiando con ella gradito tepore.
In una piccola baita vive Lexeo, calda, un bosco intorno vi cresce, noccioli, ciliegi selvatici e querce ampia chioma vi abbondano molto con tanti animali che nella macchia fanno la tana ed uccelli che lungo hanno il becco, chiassosi quando il sole è alto nel cielo. Nella porta all’ingresso distende grande una vite, feconda di grappoli, ampia di foglie che mandano ombra su due polle che sgorgano accanto. Gorgheggiano liete, l’una è volta laddove il vento giunge da nord, l’altra osserva il lungo orizzonte che spinge caldo il vento del sud.
Animali ed uccelli al tramonto vi fanno convegno, dissetandosi ognuno come voglia li scuote, con lingua nell’acqua distesa, col becco ben affondato. A Fiodea, dolce creatura, ogni sera fanno moina, quand’ella con l’otre alle polle s’accosta. Le danzano intorno gli animali del bosco strusciando sui piedi il morbido vello, sulle ginocchia talvolta, dalle mani lusinga anelando, e così gli uccelli che posano in gruppo. Li tenta Fiodea, dolce creatura, con l’agili dita o sul palmo grazioso ognuno adescando, così la donna porge blandizia ed essi goduti stridono in cuore.
Intanto il banchetto prepara Lexeo chiedendo ad Ephìro del suo tascapane che di preghi appare panciuto. Sa bene il folletto che vi è tra gli appelli chi sordo trova l’orecchio e non tutti andranno laddove vi è un tempio con tredici saggi, infatti per molti, seppur di vivida luce ammantati, sorte ha in serbo ben altro tenore!
Di lato vi corre un sentiero, ignoto ai viandanti, s’arresta al cospetto d’una quercia maestosa che possente avversa dei venti la furia e anche d’inverno, preda dei nembi, quando saetta le striscia la chioma, di fronda s’oppone e difende l’ingresso che ai mortali da sempre è taciuto, laddove Ephìro lesto s’appresta!
Ecco dunque degli amaliti la terra, il popolo dei non nati, immortali vestiti di luce che dimorano sedi all’incontro incantate. Provengono dagli uomini, in un mondo dove mai hanno vissuto se non tempo corto nel ventre materno. A loro, morte, fu data precoce, dal fato talvolta, dall’uomo quando di stirpe, il copular furtivo cela alle genti, altre quando afflizione, crudele, al focolare s’avvinghia. Son d’anima puri poiché su loro non vi è scolpita dei mortali nequizia e dell’uomo modi fecciosi, non sanno d’inganni danaro e potere.
Di mano non piantano, né arano, la terra lasciano che si accudisca da sola, eppure tutto vi cresce, grano abbondante, viti feconde di grappoli dolci, frutta succosa, bacche e funghi mielati al sapore. Vivono in baite di legno odoroso e pietra ben lavorata, non sanno di leggi, non fanno consiglio, ognuno, tra uomini e donne, a se stesso rende obbedienza, seppure al ritrovo, tepore di cuore tutti li sazia.
Vi nascono bovi, pecore, capre belanti grandi mammelle che sole corrono le cime dei monti, nessuno le guida, non hanno padrone e riuniscono spesso al richiamo del gregge. Le munge, miti all’incontro, una ninfa della montagna, latte dolce, grasso, adatto a ricotta e caci preziosi.
Fra gli amaliti Lexeo è gradito ad Ephìro, alta statura, bronzeo di pelle, verdi gli occhi, lunga la chioma, scura, in una treccia composta con lacci di seta. Fitta la barba il mento gli adorna, curata, bella a vedersi su un candido manto che cinge l’agile vita. Saggio, d’animo mite, conosce i misteri di un mondo promesso ai mortali da un grande profeta. Così Ephìro lo tiene in concetto e all’incontro, dell’uomo, gli reca novelle.
Fiodea gli è compagna, dolce creatura, nera di chioma con seta preziosa ben intrecciata, d’oro un fermaglio sul fine la tiene e posa leggera sul seno sinistro. Sembianza leggiadra che di Lexeo il focolare fa lieto, talvolta, egli, dolce l’assedia, garbato di mano vezzeggia quel corpo scambiando con ella gradito tepore.
In una piccola baita vive Lexeo, calda, un bosco intorno vi cresce, noccioli, ciliegi selvatici e querce ampia chioma vi abbondano molto con tanti animali che nella macchia fanno la tana ed uccelli che lungo hanno il becco, chiassosi quando il sole è alto nel cielo. Nella porta all’ingresso distende grande una vite, feconda di grappoli, ampia di foglie che mandano ombra su due polle che sgorgano accanto. Gorgheggiano liete, l’una è volta laddove il vento giunge da nord, l’altra osserva il lungo orizzonte che spinge caldo il vento del sud.
Animali ed uccelli al tramonto vi fanno convegno, dissetandosi ognuno come voglia li scuote, con lingua nell’acqua distesa, col becco ben affondato. A Fiodea, dolce creatura, ogni sera fanno moina, quand’ella con l’otre alle polle s’accosta. Le danzano intorno gli animali del bosco strusciando sui piedi il morbido vello, sulle ginocchia talvolta, dalle mani lusinga anelando, e così gli uccelli che posano in gruppo. Li tenta Fiodea, dolce creatura, con l’agili dita o sul palmo grazioso ognuno adescando, così la donna porge blandizia ed essi goduti stridono in cuore.
Intanto il banchetto prepara Lexeo chiedendo ad Ephìro del suo tascapane che di preghi appare panciuto. Sa bene il folletto che vi è tra gli appelli chi sordo trova l’orecchio e non tutti andranno laddove vi è un tempio con tredici saggi, infatti per molti, seppur di vivida luce ammantati, sorte ha in serbo ben altro tenore!