
In data 03 Novembre 2016, ore 20.35, ho assistito su LA7 al confronto tra Di Battista e ciò che rimane di certo Scalfari Eugenio, notissimo intellettuale di sinistra, contorsionista sociale e monarca assoluto dei patetismi geriatrici. Cornice il salottino di Otto e Mezzo, feudo blindato della bionda conduttrice nota per faziosità e sussulti ossequiosi nei confronti dei boiardi in quota al partito che adesso gestisce il potere. Premetto che ho sempre basato le mie prognosi di natura politica su quanto affermato dal nostro Eugenio: semplicemente si predice il contrario di quanto egli afferma, poiché, puntualmente, ogni congettura del grande saggio è puntualmente smentita nei fatti. In parole povere, non ne azzecca una manco a propinargli olio di ricino!
Nonostante ciò è considerato, a torto o ragione, penna rinomata e intellettuale di apprezzabile spessore, almeno sino a quando l’assedio del tempo non lo ha trasformato in un vecchio trombone sfiatato con una scatola cranica che erutta gli acuti dei neuroni che danzano in quadriglia e cantano il trallallero!
Avvinto da un irrefrenabile moto di autostima, asserisce, candidamente, che scrive e telefona assiduamente al bullo di Firenze per esortarlo a togliere il ballottaggio dalla nuova legge elettorale, diversamente vincerebbero i grillni e l’Italia andrebbe in malora: che idea illuminata e impregnata di fervore democratico. Quei neuroni...!
Lo spettacolo offerto è angosciante, ormai incapace di articolare con sostanza e senso compiuto, il nostro si abbandona ad una serie di contumelie rivolte al suo interlocutore e al movimento che rappresenta. Non pago di ciò, dopo aver eretto il proprio monumento, rivolto al leader dei pentastellati, assesta un calcione alla buona creanza e così pronunzia: “Lei è un gran parlatore (sta per parolaio), taccia e mi faccia parlare!” Resosi conto che la verve dei tempi andati gioca alla morra nel viale del crepuscolo, pesca nel torbido pentolone dei suoi umori primordiali e meschini, scodellando una serie sconcertante di strafalcioni monchi da capo a piè. Il cadente totem rivela il suo involucro: altezzoso, indisponente, insolente, grossolano. Osservare quel povero vecchio che offre di sé rappresentazione così indecorosa ha suscitato in me un moto di profonda compassione.
Presumo che medesimo sentimento abbia pervaso Di Battista che, con grande signorilità, non ha infierito su quel fagotto tremebondo puntellato nei fasti del passato e animato da zotici slanci che tratteggiano una figura malinconica, penosa, anacronistica. Mi lievita in mente, a quel punto, la discesa di Ulisse nell’Ade, quando, con la madre all’incontro, ella, favellando di Laerte, così lo arringa: “…ma il padre tuo resta là, tra i campi, non scende in città: non ha letto né panni o mantelli o coperte splendenti, l’inverno si stende dove gli schiavi dormono in casa, nella cenere accanto al fuoco, e povere vesti ha sul corpo, quando poi viene l’estate e l’autunno fecondo, qua e là per la costa dell’orto ricco di viti, in terra già pronto gli si offre un letto di foglie cadute. E lì giace afflitto, e grande in cuore la pena gli cresce…triste vecchiaia l’opprime!”
Caro Eugenio, non vi sarà per te il ritorno di Ulisse, i tentativi agiti per assurgere a padre della Patria sono miseramente naufragati nei meandri ove praticano coloro che adesso tuteli nella speranza che ancora una scodella ti venga accostata. Infilati le babbucce ed una cuffia di lana, adagiati accanto al fuoco che l’inverno è alle soglie.
Sulle macerie di un paese in dissesto danzano vecchi fantasmi che vorrebbero ancora dettare i ritmi di un nostalgico valzer che conduce laddove forte stridono i denti. All’orizzonte si stagliano le grette figure di chi del tempo vorrebbe il ritroso ed ancora alle sue nebbie sfuggire: il sentiero dell’oblio dovranno percorrere, il limbo li attende, ove per sempre troveranno confino!
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