11-03-2013, 10:33
Tenerezza in cuor mi pone l’osservar di nebbia i pennacchi belli sulla montagna silente. Giunto è il tempo che di calor torrido non più la terra si duole, gemito ode della prediletta figlia la madre sua e dal ciel riversa pioggia e vento che di fresche coccole l’esseri adula insinuando nel roccioso anfratto e d’antiche storie l’aria echeggia.
Fruscio lieve che in un dolce suono s’avvolge a narrar del bosco la magia che incanto riversa su chi estasiato s’attarda e l’orecchi in deferenza porge.
Viandante, fortuna fato t’accosta, poesia d’Autunno udir t’è dato e non d’ogni essere umano ciò è privilegio! Da tempo immemore quivi d’animo bieco gente incede e mesto fardello in spalla s’agghinda.
Pur di vividi lumi fosse il bosco ammantato oscuro parrebbe ad essi il cammino poichè di tenebra il cuor loro è giaciglio. Viandante, schietto vedo l’animo tuo mentre sosti ad ascoltar d’autunno poesia. Compagni ti saranno l’animali del bosco fintanto che nel riposo ti pasci e gustosi frutti delibar potrai in codesto desco che tutti ammannisce e così l’orecchi tendi al mio favellare.
“Quanto bella è la terra che l’autunno gli fila di colori e profumi, fresco vento lenire le vampate ardenti del sole che al grano maturo gagliardo si fece. L’acqua bella che il cielo riversa di torrenti e fiumi gorgoglio rinnova ed a valle s’ode, lieto, il flutto che pendio traversa. Frutti grandi sull’alberi, uva dolce che raggio di sole fece matura a che vendemmia compier si possa. Grappoli belli che d’uomo sapienza, ambrosia fan dolce, tempo vuole a che vino divenga, mielato e forte, al palato gradito.
D’autunno il vino è gran dono, cuor ravviva e parole versa in lieta ciarla, come fiume che di pioggia in piena s’accresce e forte l’argine devia.
Di questo sa bene Odisseo luminoso, re degli inganni, col vino intrattenne l’ospite suo sciagurato che dei compagni fece banchetto.
Altero ciclope unico occhio, se data mi fosse in schiava la sorte, d’autunno i fasti t’affiderei affinché non abbia col vino inebriarti. Parole indarno m’è pronunciare, della schiatta tua divina hai fatto bordone e non t’è vezzo pane offrire a chi nella soglia s’attarda.
Eppur latte t’abbonda e d’alimenti trabocchi, generoso è il gregge che a pascere porti. Di ricotta una ciotola non t’è proprio elargire e razzia vuoi far dell’ospite tuo seppur detto t’è stato che un giorno, dal mare, giunto sarebbe l’equo castigo. Stolto gigante che plumbei ignori i segni del cielo e t’appresti goduto all’orrido pasto, bevi dunque il vino che Odisseo ti porge, e nel fatal giaciglio in sonno rapito, con legno puntuto di fuoco acceso, cavar l’occhio ti possa di Laerte il figlio glorioso.
A tal fato non bramo, o altero ciclope unico occhio, pena m’affligge che al padre tuo Poseidone invochi vendetta, l’ira sua funesta al genere umano crudele s’avvinghia. La schiatta tua empia d’ogni uomo s’è fatta padrona e con occhio solo in pena vaga luce a bramare. Se potessi riscriver gl’immortali versi, in altri mari la nave achea troverebbe riparo e non scempio d’umana carne ti sarebbe concesso, conservando così l’occhio che Odisseo ti cavò destando l’ira di Poseidone sovrano”.
Questo è il mio favellare, viandante che d’occhi ne hai due e buono vedo l’animo tuo. Il viaggio dunque riprendi e torna, se puoi, in questo luogo d’incanto. Ancor berremo mielato il vino, al palato gradito e forte. Nel tuo cammino v’è gente che la terra di ferro cinge ed alte le mura in pietra innalza a che “Nessuno” vi possa sostare, manco costretta fosse di pane un pezzo elargire.
Tenebra molta dovrai traversare, per questo del bosco i vividi lumi abbi a seguire e non ti fermare. Vi sono altri posti ove sostare ad osservar di nebbia belli i pennacchi con l’animali in tua compagnia e i frutti del bosco nel desco godere. Viandante cuor buono, teco porta questo vino d’autunno gran dono!
Fruscio lieve che in un dolce suono s’avvolge a narrar del bosco la magia che incanto riversa su chi estasiato s’attarda e l’orecchi in deferenza porge.
Viandante, fortuna fato t’accosta, poesia d’Autunno udir t’è dato e non d’ogni essere umano ciò è privilegio! Da tempo immemore quivi d’animo bieco gente incede e mesto fardello in spalla s’agghinda.
Pur di vividi lumi fosse il bosco ammantato oscuro parrebbe ad essi il cammino poichè di tenebra il cuor loro è giaciglio. Viandante, schietto vedo l’animo tuo mentre sosti ad ascoltar d’autunno poesia. Compagni ti saranno l’animali del bosco fintanto che nel riposo ti pasci e gustosi frutti delibar potrai in codesto desco che tutti ammannisce e così l’orecchi tendi al mio favellare.
“Quanto bella è la terra che l’autunno gli fila di colori e profumi, fresco vento lenire le vampate ardenti del sole che al grano maturo gagliardo si fece. L’acqua bella che il cielo riversa di torrenti e fiumi gorgoglio rinnova ed a valle s’ode, lieto, il flutto che pendio traversa. Frutti grandi sull’alberi, uva dolce che raggio di sole fece matura a che vendemmia compier si possa. Grappoli belli che d’uomo sapienza, ambrosia fan dolce, tempo vuole a che vino divenga, mielato e forte, al palato gradito.
D’autunno il vino è gran dono, cuor ravviva e parole versa in lieta ciarla, come fiume che di pioggia in piena s’accresce e forte l’argine devia.
Di questo sa bene Odisseo luminoso, re degli inganni, col vino intrattenne l’ospite suo sciagurato che dei compagni fece banchetto.
Altero ciclope unico occhio, se data mi fosse in schiava la sorte, d’autunno i fasti t’affiderei affinché non abbia col vino inebriarti. Parole indarno m’è pronunciare, della schiatta tua divina hai fatto bordone e non t’è vezzo pane offrire a chi nella soglia s’attarda.
Eppur latte t’abbonda e d’alimenti trabocchi, generoso è il gregge che a pascere porti. Di ricotta una ciotola non t’è proprio elargire e razzia vuoi far dell’ospite tuo seppur detto t’è stato che un giorno, dal mare, giunto sarebbe l’equo castigo. Stolto gigante che plumbei ignori i segni del cielo e t’appresti goduto all’orrido pasto, bevi dunque il vino che Odisseo ti porge, e nel fatal giaciglio in sonno rapito, con legno puntuto di fuoco acceso, cavar l’occhio ti possa di Laerte il figlio glorioso.
A tal fato non bramo, o altero ciclope unico occhio, pena m’affligge che al padre tuo Poseidone invochi vendetta, l’ira sua funesta al genere umano crudele s’avvinghia. La schiatta tua empia d’ogni uomo s’è fatta padrona e con occhio solo in pena vaga luce a bramare. Se potessi riscriver gl’immortali versi, in altri mari la nave achea troverebbe riparo e non scempio d’umana carne ti sarebbe concesso, conservando così l’occhio che Odisseo ti cavò destando l’ira di Poseidone sovrano”.
Questo è il mio favellare, viandante che d’occhi ne hai due e buono vedo l’animo tuo. Il viaggio dunque riprendi e torna, se puoi, in questo luogo d’incanto. Ancor berremo mielato il vino, al palato gradito e forte. Nel tuo cammino v’è gente che la terra di ferro cinge ed alte le mura in pietra innalza a che “Nessuno” vi possa sostare, manco costretta fosse di pane un pezzo elargire.
Tenebra molta dovrai traversare, per questo del bosco i vividi lumi abbi a seguire e non ti fermare. Vi sono altri posti ove sostare ad osservar di nebbia belli i pennacchi con l’animali in tua compagnia e i frutti del bosco nel desco godere. Viandante cuor buono, teco porta questo vino d’autunno gran dono!
Un caro saluto dalla terra dei nuraghi!